Indipendenza economica ed empowerment femminile

Oggi l’empowerment costituisce una keyword di molti programmi, tra tutti l’Agenda 2030 dell’ONU. Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e le ragazze è uno dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile

Presidente della Luiss School of Law già Ministro della Giustizia 

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Dall’organizzazione aziendale — ambito in cui probabilmente affonda le radici, nell’accezione di valorizzazione del ‘capitale umano’, ossia delle potenzialità individuali per far sì che ciascuno sia in grado di dare il miglior contributo — sino ai settori del lavoro, della medicina, della psicologia sociale, il concetto di empowerment viene generalmente considerato multisfaccettato e polifunzionale.

La nozione, diffusasi dunque in molti ambiti, e avendo in ciascuno acquisito peculiari sfumature, pare comunque svelare un comune denominatore per quanto attiene alle sue finalità: quando si parla di misure di empowerment, si fa in qualche modo riferimento alla presa di coscienza individuale circa le proprie capacità.

Da qui muovono anche le teorizzazioni che iniziano a mettere insieme ‘genere’ ed empowerment e che si consolidano, a partire dagli Anni Settanta, nel lessico di taluni movimenti femministi: il focus è, in quel periodo, sui diritti socio-economici delle donne, inclusi la parità di retribuzione e l’accesso all’istruzione. La parola empowerment però non rimane confinata a slogan o isolate rivendicazioni, ma trova, nel breve volgere di alcuni anni, stabile ingresso nel linguaggio istituzionale. 

In molti ritengono che già con la Conferenza di Nairobi del 1985, a conclusione del decennio delle Nazioni Unite per la donna, tale approccio abbia iniziato a prendere forma – ad esempio, nella riconosciuta necessità di promuovere una maggiore partecipazione delle donne alla vita pubblica e al potere; ma è in occasione della Conferenza mondiale sulle donne, svoltasi a Pechino nel 1995, che la Piattaforma d’azione ivi adottata ha affermato espressamente, in apertura, di voler tracciare le linee da seguire “for women’s empowerment”. 

Oggi, come sappiamo, l’empowerment costituisce una keyword di molti programmi di primari enti e istituzioni globali. Tra tutti, non si può non citare l’Agenda 2030 dell’ONU, che ha espressamente incluso tra i suoi 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile il raggiungimento della parità di genere. La denominazione del relativo obiettivo, il numero 5, è la seguente: “Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e le ragazze”. Tra i target considerati, si cita il miglioramento delle tecnologie abilitanti – in particolare quelle dell’informazione e della comunicazione –, nonché l’adozione di politiche e normative finalizzate a promuovere l’eguaglianza e, appunto, l’empowerment femminile.

Anche nella versione italiana dei c.d. SDGs – sustainable development goals, il termine è spesso usato in originale e, se tradotto, fa riferimento per lo più all’«emancipazione». Va riconosciuto, in verità, che «empowerment» evoca molte nuances di significato non semplici da rendere in italiano. Il ‘potenziamento’, come anche la citata ‘emancipazione’, non necessariamente richiamano quella accezione della parola inglese che implica anche l’investire di potere o autorità, l’attribuire a qualcuno i mezzi per raggiungere taluni risultati; accezione che oramai rappresenta una sicura caratterizzazione di tale espressione. 

Invero, sul piano ‘tecnico’, guardando alla definizione fornita dal Gender Equality Glossary elaborato da UN Women, l’empowerment femminile concerne l’acquisire potere e controllo sulla propria vita, e ricomprende la costruzione della fiducia in sé, l’allargamento delle possibilità di scelta, le risorse per intervenire concretamente e trasformare le istituzioni che perpetuano la discriminazione di genere. Dunque, l’empowerment si correla non solo all’avere pari capacità (ad esempio, con riguardo all’istruzione) e pari accesso alle opportunità (come quelle occupazionali), ma è un concetto che implica anche avere il potere di farne uso; ossia, di avere adeguati strumenti per prendere decisioni anche strategiche (come avviene per la leadership e la partecipazione politica). 

Una interpretazione, insomma, che pone al centro — per riprendere concetti del lessico psicologico e sociologico — l’agentività, intesa come capacità individuale di raggiungere un obiettivo, ma anche come processo che conduce a un certo risultato; un processo che porti a modificare i rapporti di potere in campo sociale, economico, politico. Questa chiave di lettura pare trovare conferma anche a livello regionale e domestico, ove si guardi ai riferimenti all’empowerment in importanti documenti d’indirizzo.

Ad esempio, la Commissione europea ha elaborato una Gender Equality Strategy che individua, tra gli obiettivi da conseguire entro il 2025, la necessità di compiere progressi in relazione alla partecipazione delle donne ai diversi settori economici e al divario salariale. Il perseguimento di tali scopi si lega alla previsione di azioni concrete, tra cui, in particolare, misure vincolanti sulla trasparenza retributiva, la promozione della parità nella fruizione di congedi familiari e di formule di lavoro flessibili, investimenti nei servizi di educazione della prima infanzia e nei servizi di assistenza.

Si tratta di strumenti di empowerment perché essi contribuiscono alla riduzione delle differenze – per quanto qui interessa – di genere, mettendo le donne, come bene si sottolinea nella sezione introduttiva della Strategy, nella condizione di essere libere di perseguire le proprie scelte di vita, di avere pari opportunità di realizzazione personale e di partecipare alla società europea e svolgervi un ruolo guida.

In senso analogo si orienta anche il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, allorché menziona l’empowerment femminile non in relazione a singoli interventi, bensì tra gli obiettivi trasversali a tutte le componenti del PNRR, in termini di inclusione sociale (insieme a quelli riguardanti l’occupazione giovanile e il Mezzogiorno). Le azioni specifiche previste dal PNRR in favore della parità di genere sono rivolte soprattutto alla promozione di una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, mediante sia interventi diretti a sostegno dell’occupazione e imprenditorialità delle donne, sia interventi di tipo abilitante, che indirettamente potrebbero portare a un aumento delle donne lavoratrici (quali il potenziamento dei servizi educativi per i bambini e di alcuni servizi sociali).

Da questa analisi di contesto riguardante la definizione di empowerment femminile e le sue declinazioni sul piano programmatico e giuridico, emerge – pur nella ricchezza di possibili significati – una sicura connessione tra le capacità personali e la dimensione relazionale; tra obiettivi e strumenti che la struttura/realtà in cui si è inserite mette effettivamente a disposizione affinché sia possibile il loro raggiungimento. È quindi evidente — come del resto denotano le misure previste dai piani strategici sopra citati — l’interdipendenza tra possibilità di un pieno sviluppo della figura femminile, con le sue specificità e i suoi tratti di unicità, e le opportunità di carriera e di progressione professionale, che si traducono in disponibilità di risorse e indipendenza economica.

L’empowerment, da questo angolo visuale, richiama la possibilità per le donne di contribuire alle attività economiche, in un sistema che ne riconosca il valore: la dimensione del progresso è, al contempo, individuale e collettiva. Al riguardo, come si sa, le più recenti statistiche volte a monitorare la riduzione delle disparità di genere in campo professionale e retributivo segnalano ancora l’esistenza di un significativo gender divide se si prendono a riferimento, per l’appunto, indicatori quale il reddito, l’occupazione, le competenze — specialmente in taluni settori, come le materie STEM, tradizionalmente ‘al maschile’. 

Nel Global Gender Gap Report 2024 del World Economic Forum si legge che, al ritmo attuale, ci vorranno 134 anni per raggiungere la piena parità (nel 2158 – all’incirca tra cinque generazioni). Più specificamente, tra i diversi tipi di divario che tale studio misura — salute, istruzione, partecipazione politica, opportunità economiche — si afferma che per raggiungere la parità in tale ultimo campo saranno necessari 152 anni. ‘Chiudere’ questo gap è però oggi una esigenza che non si basa solo su ragioni di eguaglianza, ma presenta rilevanti implicazioni in termini di efficienza e competitività del sistema.

Secondo la Banca Mondiale, i progressi femminili nel mondo del lavoro e dell’imprenditorialità potrebbero condurre a un aumento del PIL globale del 20%. D’altro canto, come è stato messo in evidenza in alcuni studi, a parità di istruzione e competenze tra donne e uomini, continuare a preferire figure maschili per le posizioni decisionali e di vertice, semplicemente, va a discapito del merito, perché non assicura la migliore selezione possibile. L’apertura a un numero crescente di donne leader accrescerebbe, invece, la probabilità di avere figure apicali mediamente più qualificate.

Un discorso simile vale se si guarda ad altri effetti ‘macro’ che un maggior numero di donne in posizione di leadership comporterebbe. Le donne esprimono un diverso stile di comando che si segnala per caratteristiche peculiari come l’empatia, la visione, l’approccio relazionale, il lavoro in team. Da alcune ricerche emerge una interessante correlazione tra la presenza di donne in ruoli apicali e l’approccio ad alcune questioni che possono avere un impatto anche sui profili di performance: si può citare la maggiore propensione a formare reti di collaborazione, all’apertura ai mercati internazionali, alla flessibilità.

Mantenere alta l’attenzione su questi temi non è, quindi, solo nell’interesse delle donne. Parlare di empowerment femminile significa riflettere su questioni che hanno riflessi importantissimi per la nostra società nel suo insieme e per le nostre economie. 

Il gap salariale, le diseguali opportunità, la violenza di genere, le aspettative familiari creano ostacoli ulteriori per le donne. Alcune scelte di tipo strategico operate negli ultimi anni a livello globale prendono atto della sfida cruciale legata alla riduzione del divario di genere nelle sue differenti dimensioni, ma il percorso appare ancora lungo e indubbiamente non semplice. E se è vero le istituzioni debbono fare la propria parte, è parimenti vero che l’empowerment racchiude in sé anche una componente di self-empowerment — perché la spinta per cambiare la realtà deve comunque partire da una presa di consapevolezza individuale.

In tal senso, un input importante può arrivare anche da quante “ce l’hanno fatta”: le donne in posizione di vertice devono porsi come role model e debbono saper innescare una catena virtuosa, aiutando chi sta ancora percorrendo la strada a guadagnare fiducia e arrivare a sfondare il tetto di cristallo. 

Solo mettendo insieme supporto istituzionale, impegno individuale e solidarietà, specie ‘al femminile’, si potrà vincere la sfida verso la progressiva riduzione di disparità ingiustificate.

Questo contributo è tratto dal volume tematico

Potere femminile e violenza di genere

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