Intervista doppia

Nucleare in italia: perché sì e perché no

Chicco Testa 

Dirigente d’azienda e politico, già presidente di Legambiente

Interviste di Giorgio Marasco

Intervista a Chicco Testa

Sono favorevolissimo. L’Italia ha bisogno di diversificare le proprie fonti energetiche per garantire sicurezza, competitività e sostenibilità. Dopo decenni passati a inseguire illusioni – come l’idea che il solo solare e l’eolico da soli potessero bastare – è il momento di rimettere il nucleare al centro della strategia energetica

È favorevole o contrario al fatto che l’Italia investa sull’energia nucleare?

Favorevolissimo. L’Italia ha bisogno di diversificare le proprie fonti energetiche per garantire sicurezza, competitività e sostenibilità. Dopo decenni passati a inseguire illusioni — come l’idea che il solo solare e l’eolico da soli potessero bastare — è il momento di rimettere il nucleare al centro della strategia energetica italiana. Non perché sia la panacea di tutti i mali, ma perché serve un mix equilibrato, e il nucleare è parte di questo mix. Le rinnovabili hanno un ruolo importantissimo ma da sole non bastano.

Quali sono i principali vantaggi dell’energia nucleare rispetto ad altre fonti, come il solare o il fossile?

Il nucleare ha tre vantaggi fondamentali. Primo: produce energia 24 ore su 24, senza dipendere dal sole o dal vento. Secondo: ha emissioni di CO₂ praticamente nulle, quindi è una delle poche fonti stabili e ‘pulite’ che abbiamo. Terzo: occupa pochissimo suolo, a differenza delle rinnovabili che hanno bisogno di spazi enormi. E rispetto al fossile, il nucleare ci libera dalla schiavitù delle importazioni di gas e petrolio, che sono non solo inquinanti, ma anche geopoliticamente rischiose.

Come si sarebbe evoluta la situazione energetica in Italia se,
invece di abbandonare il nucleare dopo il 1987, avessimo continuato a investirci?

Oggi saremmo un Paese molto più sicuro e competitivo dal punto di vista energetico. Probabilmente importeremmo meno energia, avremmo bollette più basse e saremmo meno esposti alle crisi del gas come quella che abbiamo visto con la guerra in Ucraina. Inoltre, avremmo emissioni di CO₂ più basse e una maggiore capacità di fare fronte alle sfide della decarbonizzazione. L’uscita dal nucleare è stata, a mio parere, uno dei più grandi errori strategici dell’Italia del dopoguerra. è stato un errore a cui purtroppo ho contribuito anche io.

Quali sono le principali preoccupazioni ambientali legate al nucleare, e come possono essere mitigate?

Le preoccupazioni sono ben note: sicurezza degli impianti, gestione delle scorie, rischio incidenti. Ma il punto è che oggi queste preoccupazioni sono in gran parte superate dalla tecnologia. I reattori di nuova generazione hanno standard di sicurezza elevatissimi e le scorie, se ben gestite, non rappresentano un rischio reale. Il problema è più psicologico e politico che tecnico. Dobbiamo smettere di avere paura del nucleare e imparare a governarlo. Tutte le statistiche di tutto il mondo relative ai danni provocati dalle varie fonti energetiche, compresa la mortalità associata, collocano l’energia nucleare ai livelli più bassi in assoluto.

Molti sostengono che l’energia nucleare non sia una soluzione sostenibile a causa dei rischi associati agli incidenti e alle scorie. Che ne pensa?

È una critica legittima, ma spesso figlia della disinformazione o di paure irrazionali. È vero: il nucleare comporta rischi, come qualunque attività umana. Ma i rischi possono essere ridotti a livelli accettabili. Pensiamo all’aviazione: nessuno propone di abolire gli aerei perché ogni tanto succede un incidente. Il problema delle scorie esiste, ma esistono anche soluzioni tecniche: depositi geologici profondi e sistemi di contenimento affidabili. Insomma, non possiamo permetterci di rinunciare al nucleare solo perché non è a rischio zero.

Cosa comporta la gestione e lo smaltimento delle scorie nucleari a lungo termine?

Comporta pianificazione, serietà e trasparenza. Le scorie devono essere messe in sicurezza, trattate e stoccate in siti appositi, preferibilmente in depositi geologici profondi. È un problema gestibile, come dimostra il fatto che altri Paesi lo stanno affrontando senza isterismi. Serve però una governance pubblica forte, che sappia parlare con i territori e spiegare ai cittadini che le paure devono essere affrontate razionalmente.

Qual è il ruolo dell’energia nucleare nella transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, e quali sono le prospettive future per il settore?

Il nucleare è imprescindibile se vogliamo davvero decarbonizzare entro il 2050. Senza nucleare, il mix energetico non regge, a meno di immaginare scenari poco realistici di rinnovabili al 100%, con accumuli giganteschi e relativi costi. Il futuro del nucleare è promettente: dai piccoli reattori modulari (SMR) ai reattori di quarta generazione, fino alle prospettive della fusione, la tecnologia sta correndo. E l’Italia deve decidere se vuole stare su questo treno, oppure restare ferma in stazione a guardarlo passare.

Giuseppe Onufrio 

Direttore esecutivo Greenpeace Italia

Intervista a Giuseppe Onufrio

Uno scenario 100% rinnovabile, del quale come Greenpeace siamo promotori, è possibile anche in Italia e può perfettamente soddisfare i bisogni energetici. Gli incidenti nucleari gravi sono relativamente rari ma nessuna delle tecnologie oggi  in funzione o realisticamente realizzabile è intrinsecamente sicura

Quali sono i principali vantaggi e svantaggi dell’energia nucleare rispetto ad altre fonti di energia, come il solare o il fossile?
I tempi di realizzazione di nuove centrali sono compatibili con l’urgenza della transizione?

Anzitutto va ricordato che la fonte nucleare ha visto un netto declino della quota di produzione a livello globale: si è passati da poco oltre il 17% della metà degli anni ’90 a circa il 9% di oggi. La produzione in termini assoluti è rimasta stabile – nonostante la relativa crescita di questa fonte in Cina, dove comunque non supera il 5% del loro fabbisogno elettrico – mentre la produzione generale di elettricità è andata crescendo notevolmente, con le rinnovabili in crescita, dal 19% a oltre il 30% a livello globale nel 2023. E la tendenza continua.

La ragione di questa stagnazione della produzione nucleare è legata a vari fattori, anzitutto di costo. Se i costi di investimento del nucleare sono sempre stati importanti (e senza sussidi statali non sarebbero mai stati effettuati), già dopo l’incidente di Chernobyl, i criteri di sicurezza sono stati aumentati e questo ha portato a frenare gli investimenti in nuovi impianti nella gran parte dei Paesi a economia di mercato. L’incidente di Fukushima non ha migliorato le cose, anzi.

Rispetto a fonti come il gas, il nucleare ha il vantaggio di avere costi di produzione bassi e relativamente stabili, ma ha costi di investimento elevatissimi e, da sempre, ben superiori a quelli previsti in fase di progetto. Ad esempio, il reattore francese EPR di Flamanville, che ha avuto tempi lunghissimi di costruzione (17 anni contro i 4 previsti) ha registrato un costo totale, come valutato dalla Cour des Comptes (CdC) lo scorso gennaio, di 23,7 miliardi di euro,
inclusi i costi finanziari. Il progetto era stato approvato a un costo di 3,3 miliardi di euro. Il costo stimato dell’elettricità dalla Cour des Comptes è tra 122 e 174 €/MWh, e questo nonostante sia il reattore di maggior potenza esistente.

Ricordiamo che il referendum del 2011 fece saltare il memorandum Berlusconi-Sarkozy per costruire in Italia 4 reattori EPR. Se pensiamo che l’azienda proprietaria della tecnologia, la francese Areva, è fallita a causa delle perdite economiche associate alla costruzione di un EPR in Finlandia a Olkiluoto, il voto dei cittadini italiani ha evitato di imbarcarci in un’impresa fallimentare. In Francia solo l’EPR di Flamanville è stato costruito.

Non è andata meglio negli USA, Paese leader di questa tecnologia. Il ‘rinascimento’ del nucleare fu promosso dall’amministrazione Bush nel 2000. Dopo diversi anni furono ordinati 4 reattori AP1000 della Toshiba-Westinghouse. Due di questi furono cancellati per i costi eccessivi che portarono al fallimento l’azienda. Altri due sono stati completati (centrale di Vogtle in Georgia) con costi elevatissimi. Secondo la banca d’affari Lazard, il costo dell’elettricità di questi reattori è di 190 $/MWh, completamente fuori mercato. Peraltro, il piano del governo punta sui “piccoli reattori modulari”, (Small Modular Reactors, SMR) una scelta ancora meno compatibile: ad oggi, dopo 30 anni di dibattito sugli SMR non ne esiste uno, nemmeno allo stadio di prototipo, in nessun Paese occidentale. E le stime preliminari del costo dell’elettricità prodotta dagli SMR sono ben peggiorative rispetto ai reattori di maggior potenza.

In seguito al risultato del referendum del 1987, le centrali nucleari sono state chiuse. Come pensa che sarebbe evoluta la situazione energetica in Italia se, invece, avessimo continuato a investire nell’energia nucleare, e se oggi il nucleare fosse la principale fonte di energia del Paese?

Se teniamo conto che dei 4 reattori di potenza all’epoca esistenti in Italia – 3 dei quali di piccole dimensioni – uno era già sostanzialmente fermo e il più grande, quello Caorso (un BWR, stessa tecnologia di quelli di Fukushima) aveva avuto nei primi 3 anni di funzionamento circa 100 ‘scram’ (arresti d’emergenza), non direi che il referendum del 1987 abbia chiuso un grande settore. In costruzione c’erano solo i due reattori a Montalto di Castro. 

Il fantasmagorico piano nucleare di Donat Cattin della metà degli anni ‘70 prevedeva all’origine 20 centrali nucleari da 1000 MW; nel 1987 ce n’erano solo due in costruzione. Nessuno può dire cosa sarebbe successo senza il referendum, ma di certo quello che era il piano originario dopo un decennio si era già ridotto del 90%. L’incidente di Chernobyl del 1986 poi, ha segnato comunque una caduta netta nella costruzione di nuovi reattori in tutto il mondo.

È interessante notare che nell’attuale dibattito si cita più spesso il primo referendum del 1987 ma quasi mai il secondo del 2011: quest’ultimo ha bloccato un piano basato sulla generazione più recente di reattori che tuttora rappresenta lo stato dell’arte. 

Quali sono le principali preoccupazioni ambientali legate all’energia nucleare, e come possono essere mitigate?

Gli incidenti nucleari gravi sono relativamente rari ma molto più frequenti di quello che per decenni ci è stato raccontato. Nessuna delle tecnologie oggi in funzione o realisticamente realizzabile è intrinsecamente sicura. Oggi si parla di “piccoli reattori modulari” – una opzione che è stata lanciata 30 anni fa ma che non ha avuto nessuna realizzazione in Paesi occidentali, nemmeno a livello di prototipo – ma se andiamo a vedere i progetti più realistici che circolano– ancora allo stadio cartaceo – vediamo che sono tutti basati sulla tecnologia oggi dominante, quella ad acqua pressurizzata. La contaminazione radioattiva causata da incidenti gravi permane per circa tre secoli, per quanto riguarda il radionuclide più rilevante sul piano sanitario, il Cesio-137. A Fukushima, per fortuna, la nube radioattiva è finita in gran parte (80%) a mare. Se i venti l’avessero portata verso Tokyo, area urbana densissima di popolazione, i rischi sanitari sarebbero stati molto elevati: non esiste soglia al di sotto della quale l’esposizione a radiazioni ionizzanti non abbia rischi. Inoltre, si tratta di una tecnologia proliferativa: qualunque Paese abbia accesso alla tecnologia nucleare può arrivare alla bomba. La questione dell’Iran è là a ricordarcelo. 

Cosa comporta la gestione e lo smaltimento delle scorie nucleari a lungo termine?

I rifiuti nucleari, dal punto di vista della loro gestione, li possiamo classificare in due grandi classi: quelli a bassa e media attività, che si possono gestire in depositi ingegneristici anche di superficie, e quelli ad alta attività e lunga vita radioattiva che vanno stoccati “per sempre” in depositi geologici. Un deposito di superficie con i rifiuti della prima categoria può essere considerato non più radioattivo dopo tre secoli. I secondi, mai. I rischi sono quelli di una possibile contaminazione dell’ambiente, ragion per cui questi impianti di stoccaggio vanno tenuti lontani dall’acqua. Anche se l’Italia ha una quantità piccola di rifiuti nucleari, abbiamo il paradosso di avere ancora rifiuti ad alta attività liquidi presso l’impianto di Saluggia che è circondato da due fiumi in Piemonte. Durante l’alluvione dell’anno 2000, l’acqua rischiò di entrare nell’impianto e fu costruito un muro di contenimento. Nonostante la prescrizione successiva all’alluvione di solidificare quei 300 metri cubi di rifiuti ad alta attività – prodotti a metà anni ’70 da esperimenti di ritrattamento del combustibile irraggiato del ciclo Uranio-Torio – i rifiuti sono ancora là in forma liquida, la peggiore dal punto di vista della sicurezza nucleare.

L’assenza di una soluzione a lungo termine negli USA, Paese leader della tecnologia, è esemplare. Nel 2012, il Governo Obama dichiarava fallito il progetto di deposito geologico per i rifiuti nucleari americani di Yucca Mountain (proprio per una questione legata alle infiltrazioni d’acqua). La Corte d’Appello del Distretto di Columbia, una Corte molto importante avendo sotto la sua giurisprudenza il Congresso USA, chiese all’autorità di sicurezza nucleare (NRC, Nuclear Regulatory Commission) cosa fare del combustibile nucleare irraggiato, visto il fallimento del progetto di Yucca Mountain. La NRC decise che il combustibile nucleare irraggiato (la parte più pericolosa dei rifiuti nucleari) vada stoccata a lungo termine (‘indefinitamente’) presso gli impianti nucleari anche dopo la disattivazione dell’impianto, in attesa di trovare una soluzione geologica al momento nemmeno all’orizzonte. Questa situazione non si è modificata nemmeno sotto la prima presidenza Trump. 

Quali alternative vede per soddisfare il crescente fabbisogno energetico globale in modo sostenibile, senza compromettere l’ambiente o la sicurezza?

Le fonti rinnovabili, l’elettrificazione dei consumi energetici, le batterie industriali e le reti elettriche moderne (in grado di gestire con flessibilità produzione e domanda) possono perfettamente soddisfare i nostri bisogni energetici. Come Greenpeace siamo tra i promotori del 100% Rinnovabili Network che ha prodotto recentemente un documento in 40 punti – firmato da 25 tra accademici e ricercatori – per spiegare come uno scenario 100% rinnovabile sia possibile anche in Italia.

Le fonti rinnovabili inoltre hanno un vantaggio di essere accessibili anche ai Paesi in via di sviluppo, proprio per il loro basso costo e la relativa facilità di installazione. Richiedono reti elettriche moderne e accumuli per gestire la loro variabilità, ma si tratta di tecnologie sempre più disponibili. Se a guidare la transizione è un Paese come la Cina, negli USA di recente persino il Texas trumpiano (e petrolifero) ha superato, in termini di produzione da rinnovabili e di installazione di batterie industriali, la California che aveva un primato. Oggi i primi quattro stati americani per produzione di eolico sono tutti a guida repubblicana.

La transizione verde è in corso, anche se ostacolata dagli interessi fossili – gas e petrolio in primis – come registriamo in vari Paesi, Italia inclusa. L’ossessione di Trump, che è contro le rinnovabili, per le terre rare lo dimostra. Grazie all’amministrazione Biden – con l’IRA, Inflation Reduction Act – oggi gli USA sono rientrati tra i produttori di impianti solari fotovoltaici. 

Pace e lotta alla crisi climatica sono due facce della stessa medaglia. Siamo tutti, dalla Cina all’Africa, dall’Europa alle Americhe, a rischio per la crisi climatica per questo occorre riprendere un quadro di collaborazione multilaterale. Ricordiamo che l’Accordo di Parigi sul clima del 2015 fu reso possibile anche da un accordo di cooperazione tecnologica tra USA e Cina per 400 miliardi di dollari. Bisogna tornare a un quadro di cooperazione, l’idea di guerre commerciali non aiuta né la pace né la lotta alla crisi climatica. E dunque ha ragione Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, quando afferma che «se agiamo insieme, la transizione verso le rinnovabili è il progetto di pace del XXI secolo».

Questo contributo è tratto dal volume tematico

Giustizia, sostenibilità e transizione verde

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