Intervista di Laura Anello – La Stampa
Una vita da film, verrebbe da dire: recluso per 35 giorni nella camera di consiglio del primo maxiprocesso senza potere avere contatti con il mondo; scampato all’attentato di Capaci dove morì il suo grande amico Falcone soltanto per avere preso fortuitamente l’aereo precedente; eletto alla presidenza del Senato pochi giorni dopo essere arrivato in Parlamento.
Forse per questa densità di storia, Pietro Grasso protagonista di un film lo è diventato davvero (“La Camera di Consiglio”, si è trasformato anche nell’eroe di un fumetto intitolato “Da che parte stai?”, prefazione di Geppi Cucciari, dedicato all’amatissima moglie Maria, recentemente scomparsa.
Eppure lui, ottant’anni, quarantatré passati in magistratura e dieci in politica, palermitanonato per caso a Licata, di recitare la parte del monumento alla memoria non ha nessuna voglia, impegnato com’è adesso icome Presidente della fondazione “Scintille di futuro” con cui lavora sui giovani “per seminare cultura della legalità, dei diritti, dell’uguaglianza, della solidarietà, della cittadinanza attiva e consapevole”. Fondazione nata il 16 gennaio 2023, “lo stesso giorno in cui è stato catturato Matteo Messina Denaro, un ottimo auspicio”, racconta sorridendo.
Scintille, come quelle del famoso accendino che Giovanni Falcone le diede in consegna…
“Eravamo in aereo, uno degli ultimi voli Roma-Palermo che abbiamo fatto insieme, era venerdì. Mise la mano in tasca e mi consegno quest’accendino prezioso, d’argento. Mi disse: me lo devi custodire, voglio smettere di fumare, me lo restituirai soltanto se ricomincio. Pochi giorni dopo ci fu la strage di Capaci. Lo tengo sempre in tasca, quando attraverso momenti difficili lo sfioro. Ai ragazzi dico che basta una scintilla per cambiare il futuro, proprio e degli altri”.
Quella stessa speranza che, nei giorni del maxiprocesso, anno 1987, la tenne recluso nell’appartamento accanto all’aula bunker con il presidente della Corte, Alfonso Giordano, e i sei giudici popolari. Ma è vero che per distrarvi cantavate e giocavate a carte?
“Bisognava rendere questa permanenza un po’ più leggera, nel poco tempo libero che ci restava dal lavoro immane della sentenza, in clausura, senza televisione né giornali né telefonate con nessuno, con un cortiletto triangolare per prendere una boccata d’aria, il cuoco pagato dal ministero che veniva a prepararci i pasti. Si lavorava dalle 9 alle 13, ci fermavamo per pranzare e poi dalle 15 alle 20. Esaminavamo dieci imputati al giorno, ce n’erano 460. Quando non si lavorava, mi dedicavo al sostegno psicologico, ci raccontavamo barzellette. Un giorno, era la vigilia dell’Immacolata, decidemmo che ci saremmo vestiti in modo elegante, come se fossimo stati fuori a festeggiare. Giocammo a poker, con i soldi, decidendo che chi avrebbe vinto avrebbe poi giocato una schedina. Fu giocata, ma non vincemmo nulla. Era un modo di superare la paura, di esorcizzare con una risata tutto quello che avevamo visto passare durante il processo: chi si era cucito le labbra con il fil di ferro, chi aveva le crisi epilettiche, chi fingeva malattie, chi faceva il pazzo..”
Imputato a piede libero al maxiprocesso era Giovanni Brusca, lo scannacristiani, più di cento omicidi sulle spalle, lo stragista di Capaci poi pentito, che lei avrebbe avuto modo di incontrare quasi dieci anni dopo.
“Sì, dovetti interrogarlo, era il 1996. Mi disse subito di sapere chi fossi, mi raccontò che avevano progettato di sequestrare mio figlio, Maurilio, sul campo di calcetto, per dare ‘un altro colpettino’ alla Trattativa con lo Stato, per riattivarla perché languiva. E che poi non aveva fatto in tempo, era stato arrestato. Anni dopo, quando Maurilio era già entrato in polizia, si trovò a occuparsi del servizio di protezione a Brusca durante il permesso premio che aveva avuto da collaboratore di giustizia.
Lei crede, quindi, che ci sia stata la trattativa tra Stato e mafia?
Questo è indubbio, lo ammettono anche i diretti interessati. I processi non sono riusciti a dimostrare che costituisse un reato, ma che ci siano stati contatti è acclarato.
è scampato il sequestro di suo figlio, ma anche un attentato.
“E la cosa incredibile è come lo venni a sapere. Andai a interrogare il pentito Gioacchino La Barbera per chiedergli dettagli su un attentato a un magistrato di cui diceva di non ricordarsi il nome. Appena mi presentarono, la memoria gli si aprì: Iddu è, iddu è, è lui, è lui, disse. Mi raccontò che dovevano mettere l’esplosivo davanti casa dei miei suoceri, a Monreale. Mi salvai perché mia suocera morì e Salvatore Biondino, che nel frattempo era venuto in possesso del telecomando adatto a innescare l’esplosivo, venne arrestato insieme con Totò Riina”.
Sua moglie è protagonista con lei del fumetto sulla sua vita, l’ha seguito in tutta la sua genesi, non è poi riuscita a vederlo pubblicato.
“Mia moglie era una donna molto ironica. In una scena la si vede di spalle. Mi disse: ma lo sai che me lo devi presentare questo disegnatore che mi ha fatto questo bel lato B?”
Lei ha fatto per dodici anni il pm, poi il giudice, poi di nuovo il procuratore, poi è andato a guidare la procura antimafia. Che cosa pensa della riforma con cui si separerebbero le carriere?
“Che è inutile, oltre che dannosa. Con la riforma si formerebbe una categoria di pm privi della capacità di cercare prove a favore, anche per l’imputato, come è il loro dovere nel nostro ordinamento. Il nostro obiettivo è la giustizia, non la vittoria nel processo”.
Appena eletto al Senato con Pd, si trovò a ricoprire la seconda carica dello Stato accanto al presidente Mattarella. La si ricorda ancora, con un cappotto color cammello addosso, nelle fotografie scattate il 6 gennaio 1980, giorno dell’omicidio del fratello Piersanti, presidente della Sicilia.
“Non lo rimisi mai più dopo quell’immagine. L’ho ritrovato pochi giorni fa nell’armadio, ormai non mi sta più. ”.
Un delitto su cui si evocano periodicamente le commistioni tra mafia, eversione di estrema destra, servizi deviati. Proprio recentemente, l’arresto clamoroso di un ex funzionario di polizia accusato di depistaggio…
“Andai a interrogare Fioravanti e Mambro, poi le indagini passarono prima a Chinnici poi a Falcone, ma quella pista allora non portò a nulla”.
Quando era piccolo giocava a calcio con Marcello Dell’Utri in una squadra chiamata Bacigalupo.
“Avevo quattordici anni e lui diciassette quando abbandonai la squadra. Poi lo ritrovai dopo anni imputato per associazione mafiosa quando andai a fare il Procuratore capo a Palermo. Durante il processo fece una battuta su di me, dicendo che uscivo sempre dal campo senza una macchia, anche quando si giocava nel fango. Io risposi che era meglio così perché certe macchie non si possono levare”.