Intervista doppia

La comunicazione interna alle organizzazioni criminali: dai pizzini alle chat criptate

Procuratore di Napoli

Dai pizzini sgrammaticati con cui Provenzano esprimeva il suo personalissimo stile di comando, si è passati ai nuovi media, ma soprattutto alla comunicazione filtrata dai server che garantiscono la sicurezza di messaggi a prova di intercettazione

Il silenzio è il precetto meno osservato dai mafiosi. Il loro linguaggio, ricco di sottintesi, tra il detto e il non detto, è sempre stato più allegorico che denotativo.

Tommaso Buscetta raccontava che i mafiosi delle passate generazioni non erano molto loquaci. Parlavano una lingua “fatta di discorsi molto sintetici” e di brevi espressioni con cui condensavano lunghi discorsi. Stava a chi li ascoltava capirne il senso. I particolari e i dettagli venivano volutamente omessi.1 Per Giovanni Falcone, Buscetta è stato determinante nel fornire una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice per comprendere la complessità di Cosa nostra. «È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti», amava ripetere il magistrato ucciso dalla mafia nella strage di Capaci del 1992.2

«L’implicito di cui sono densi gli scambi comunicativi», conferma oggi Gaspare Spatuzza, ex manovale dei boss stragisti Giuseppe e Filippo Graviano, condannato, tra l’altro, per l’omicidio del parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi, «non è un semplice non detto, ma uno strumento per esprimere in modo allusivo, parole più importanti di quelle effettivamente pronunciate».3 Quello di Cosa nostra, in altre parole, è un linguaggio “semanticamente obbliquo”, come sostiene Salvatore Di Piazza, e questo lo distingue dal linguaggio comune, caratterizzato da una rigida corrispondenza tra significati e significanti. Di contro, nel linguaggio mafioso non c’è riferimento esplicito tra pensieri e parole. «Si pùo fare a meno delle parole e operare sostituzioni con gli impliciti, si può dire qualcosa per intendere assolutamente il contrario di ciò che solitamente si intende».4

Il gergo

Questo linguaggio “semanticamente obbliquo»” era detto baccagghiu, un termine che viene fatto risalire al morso del cavallo oppure al francese bâclage che sta per blocco, sbarramento. ‘U Baccagghiu è anche il titolo del dizionario comparativo etimologico del gergo parlato dai bassifondi, pubblicato da Gabriele Maria Calvaruso nel 1929. Calvaruso per spiegare il senso del baccagghiu aveva ripreso il lemmo contenuto nel Vocabolario dei Sinonimi di Niccolò Tommaseo, secondo cui il gergo era un «parlare oscuro per figure strane e per lontane allusioni», ovvero una «lingua arbitraria intesa da pochi».5 Usato anche in Calabria e in Campania per descrivere il linguaggio di ‘ndranghetisti e camorristi, il baccagghiu aveva una doppia funzione: rendere incomprensibile ai non affiliati ciò che si diceva (criptolalia) e sancire l’appartenenza a un gruppo, tramite la condivisione dello stesso codice linguistico. È ovvviamente sotteso l’esistenza di due mondi: quello inclusivo dei cosiddetti uomini d’onore, e quello esclusivo dei carduni, ovvero dei carciofi selvatici, degli altri.

Stesso discorso vale anche per la ‘ndrangheta che sin dalle origini si distingue al pari della Camorra per un linguaggio “a mascolo”, ovvero da uomini. In alcune sentenze della Corte di Appello delle Calabrie a partire dagli anni ottanta dell’ottocento6 e in un rapporto del 1924 dei carabinieri reali di Bianco, in provincia di Reggio Calabria, vengono elencate alcune espressioni usate dagli affiliati per comunicare, senza essere compresi. Tufa, per esempio, stava per rivoltella, settesoldi per coltello, zazzi per carabinieri e azzagnari per rubare.7 Centinaia di questi termini ed espressioni riconducibili alla malavita italiana vennero raccolti e pubblicati nel 1969 dalla Direzione generale della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno in un libro dal titolo Gergo della malavita.8 Aviri stuppa, ovvero stoppia, nel vecchio baccagghiu, per esempio, era una caratteristica attribuita all’uomo che non parlava, che si teneva stretto i segreti dell’organizzazione.9 Cascittuni, invece, era l’epiteto usato per descrivere lo spione o il tragediatore. Loro e gli altri. Loro, ancora oggi, si considerano uomini speciali, gli altri contano poco o nulla. E chi tradisce brucerà come il santino che tengono in mano al momento dell’iniziazione. Riti antichi e giuramenti violenti che li fanno sentire diversi e migliori, come ricordava Antonino Calderone.10 Frasi semplici e contorte allo stesso tempo, quasi dei trabocchetti verbali. Ma per i mafiosi questi riti sono come la malta che tiene uniti i mattoni, segnano un legame indissolubile, inscindibile. Nel rito si salda il senso di un’appartenenza comune, si crea una separazione netta tra chi è ritenuto uomo e chi no.

Farfalle e palummedde

L’unico modo per comunicare senza gli ammiccamenti del detto e non detto era rappresentato dalle farfalle, messaggi scritti che “volavano” da una sezione all’altra dei vari penitenziari. Fu proprio una “farfalla” sequestrata nel carcere di Reggio Calabria nel 1905 a rendere nota l’esistenza di due scuole di pensiero all’interno della picciotteria calabrese, una sorta di ‘ndrangheta prima maniera. Quella dei reggini, ovvero dei picciotti di Reggio Calabria, che erano favorevoli al riconoscimento in Calabria degli ’ndranghetisti affiliati negli Stati Uniti e quella dei palmesi, ovvero dei picciotti del circondario di Palmi che, invece, a quella opzione erano del tutto contrari. Nel quesito posto da un picciotto al capo società è possibile notare l’obliquità del linguaggio usato: egli chiede infatti se i camuffi americani camminassero anche in Calabria.11 I camuffi, di cui parleremo più avanti, erano foulard di seta che i picciotti calabresi portavano annodati al collo.

Gli stessi metodi venivano usati anche dai mafiosi, come ricorda Antonino Calvaruso, ex autista del boss Leoluca Bagarella. Calvaruso raccontò ai magistrati di avere avuto il compito di consegnare ad altri uomini d’onore le cosiddette palummedde, messaggi contenenti informazioni su riunioni, ma anche su omicidi. Disse anche di aver ricevuto dallo stesso Bagarella un quaderno su cui c’erano appuntati nomi e cifre con l’ordine di non farlo vedere a nessuno perché sarebbe «scoppiata la terza guerra mondiale».12

Gli Statuti

Ovviamente la summa comunicativa all’interno delle organizzazioni criminali passa dagli statuti, le leggi che regolano l’organizzazione sul modello delle istituzioni statualmente lecite, come aveva intuito nel 1918 il giurista Santi Romano con la sua teoria sulla pluralità degli ordinamenti giuridici.13 Contrariamente a Cosa nostra, la ‘ndrangheta ha lasciato molte tracce dei suoi codici: dal 1897 a oggi ne sono stati sequestrati più di trenta, alcuni dei quali anche in Canada e in Australia. Il primo codice di cui si ha notizia, però, è riconducibile alla Bella Società Riformata, la Camorra di prima ottocento. Si chiamava frieno ed era composto da ventisei articoli. L’unico codice di Cosa nostra finora ritrovato e descritto come una sorta di vademecum del perfetto mafioso, invece, è quello sequestrato nell’abitazione di Salvatore Lo Piccolo nel 2007.

La prima regola del vademecum di Lo Piccolo recita testualmente: Non ci si può presentare da soli ad un altro amico nostro – se non è un terzo a farlo.

Il secondo: Non si guardano moglie di amici nostri.

Il terzo: Non si fanno comparati con gli sbirri.

Il quarto: Non si frequentano né taverne e né circoli.

Il quinto: Si è in dovere in qualsiasi momento di essere disponibili a Cosa nostra. Anche se ce (testuale) la moglie che sta per partorire.

Il sesto: Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti.

Il settimo: Si ci deve portare rispetto alla moglie.

L’ottavo: Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità.

Il nono: Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie.

Il decimo che è anche l’ultimo fornisce precise indicazioni sui termini dell’affiliazione, ovvero su “chi non può entrare a far parte di Cosa nostra” e in particolare a “chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine”, su “chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, e infine su “chi ha un comportamento pessimo e non tiene conto ai valori morali”.

Con il decalogo, è stata sequestrata anche un’immaginetta sacra con la formula di affiliazione: “Giuro di essere fedele a Cosa nostra se dovessi tradire le mie carni devono bruciare – come brucia questa immagine”. Senza entrare nel contenuto del vademecum sequesrato nella casa di Lo Piccolo, all’epoca ritenuto l’erede di Bernando Provenzano – va detto che la formula di giuramento riflette quella della setta degli Stuppagghieri di Monreale trovata nel 1877.

Sfregi, omicidi e lettere di scrocco

Oltre a quello esoterico, c’è anche un linguaggio essoterico, ovvero teso a filtrare messaggi, spesso simbolici, all’esterno. È una comunicazione fatta di sfregi, lettere di scrocco e omicidi rituali.

Lo sfregio era una forma di punizione, un segno indelebile della sconfitta che segnava il volto di un individuo per il resto della sua vita. Nel 1897 una sentenza del tribunale di Reggio Calabria ricostruisce un dialogo in cui venivano usate frasi incomprensibili, come per esempio “sballaci a mutria” che stava per “tagliale la faccia”, in riferimento a una prostituta che avrebbe potuto denunciare il suo “protettore”.14 Il rasoio era l’arma preferita di picciotti e camorristi anche in Calabria. In un processo celebrato a Palmi nel 1890 contro una setta di camorristi che si era propagata nelle carceri, un teste dichiarò che nel suo paese molti avevano la faccia tagliata dal rasoio ed erano rimasti “perciò deturpati nel volto”. Fu proprio uno sfregio sul volto che consentì nel 1907 al detective italoamericano Joe Petrosino di riconoscere e arrestare a New York, Enricone Alfano, boss della Camorra, ricercato in Italia.

Anche l’omicidio ha una sua grammatica: l’incaprettamento indicava un tradimento, una pietra in bocca lasciava intendere il carattere pericolosamente loquace della vittima. Spesso le vendette venivano compiute nei giorni di festa e assumevano un valore rituale altamente simbolico, cancellando definitivamente quel giorno segnato a rosso nel calendario per lasciare spazio alla commemorazione e al ricordo del familiare ucciso.

Ancora più esplicite erano le lettere di scrocco, diffuse anche negli Stati Uniti, in Canada e in Australia. Erano richieste estorsive, che, secondo Antonino Cutrera, un delegato di pubblica sicurezza che operava in Sicilia, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, nascevano dall’esigenza dei picciotti di sovvenzionarsi, sopperendo alla “cattiva annata” o agli imperiosi bisogni delle famiglie.15

Egregio Signor,

Vi pregano gli amici vostri se voi non voleti distrutti i beni che voi possedete vi pregano di mandarsi lire 3mila se volete vivere ancora dovete fari questo le mandati sul Piano Balestra montagna Catalfamo nella casuccia confinante Luiggi Scardina, mandarli collomo (con l’uomo) vostro Rosario… orario mezzanotte per tre giorni. Li prego di non mancari o pure la vita vostra.

In questa lettera, scritta in un italiano piuttosto approssimativo e inviata da Santa Flavia il 12 giugno 1896, c’è tutto il senso delle lettere di scrocco. Secondo alcuni dati diffusi dalla locale questura dal 1893 al 1899 nella sola provincia di Palermo ne vennero catalogate 219.16 Definita anche tassa sulla paura, l’estorsione, nel tempo, da “ingiusto profitto con altrui danno” (art. 640 del Codice Penale) è diventata una forma di protezione, una sorta di pretesa fiscale da parte delle organizzazioni mafiose, giustificata da una serie di controprestazioni, tra cui la risoluzione di controversie di natura legale ed extra-legale, la garanzia dell’ordine pubblico, tramite il controllo della microcriminalità sul territorio e la tutela dei diritti di proprietà e di confine. Oggi, in molte zone, soprattutto al Centro-Nord, è stata sostituita dalla fatturazione per operazioni inesistenti, giustificate da società cartiere.

Prima ancora delle lettere di scrocco utilizzate in Sicilia e in Calabria, come racconta Marc Monnier, i camorristi in carcere giustificavano le loro richieste estorsive con la scusa di dover comprare l’olio per tenere accesa una lampada votiva davanti al quadro di una Madonna.17 Una pratica raccontata alcuni secoli prima anche in una novella scritta da Miguel de Cervantes.18

Antonio Nicaso

Docente di storia sociale della criminalità organizzata Queen’s University Canada

Il linguaggio non verbale

Nella loro capacità espressiva, i mafiosi riescono a comunicare anche con un linguaggio non verbale, o meglio del corpo, come l’abbigliamento, l’incedere, il taglio dei capelli e la gestualità. 

Corrado Alvaro scriveva che i picciotti legati alla ‘ndrangheta si facevano crescere le basette, assumevano un’andatura dondolante e portavano un fazzoletto di colore, rigirato con molta cura attorno al collo con annodature raffinate.19 In una sentenza del 1890 del Tribunale di Palmi si fa riferimento ad alcuni affiliati che si riconoscevano per un particolare taglio di capelli, detto a farfalla.20

Anche Alexandre Dumas, descrisse il particolare look dei camorristi che si facevano notare per i loro abiti di velluto a colori sgargianti, per la loro cravatta chiara, le catene degli orologi incrociati in tutti i sensi sul panciotto cangiante, per le loro dita cariche di anelli fino all’ultima falange e per i bastoni lunghi di rattan. Erano in altre parole riconoscibili come i bravi del Manzoni ne I Promessi Sposi. «L’abito, il portamento e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguere dall’aspetto, non lasciava dubbio intorno alla lor condizione».22

I mafiosi erano riconoscibili anche per l’incedere spocchioso. Ostentavano i ritmi lenti come se fossero gli unici a permetterseli, non avendo la pressione di dover lavorare. C’è un verbo che descrive l’andatura tracotante e supponente dei mafiosi: annacarsi, ovvero muoversi ondeggiando come le statute trasportate in processione durante le feste patronali. Anche quello era un modo di comunicare, di far capire a tutti chi comandava nei vari paesi. Perché tutti lo dovevano sapere. L’importante era negarlo agli “sbirri”.

Si comunicava anche con i tatuaggi che rappresentavano un’indicazione di appartenenza o di abilità/valenza. In un articolo della Tribuna Illustrata del 1906 venne riprodotto un alfabeto dei segni riconducibile ai tatuaggi dei camorristi. Nelle carte di molti processi dell’Ottocento e di inizio Novecento vennero ritratti i tatuaggi che gli inquirenti avevano catalogato sul corpo di picciotti e camorristi.23 Importanti studi sui tatuaggi vennero fatti da Abele De Blasio.24

Oggi invece i tatuaggi hanno altri orizzonti di senso. Matteo Messina Denaro, per esempio, ne aveva tre: due erano rappresentati da frasi e uno da un codice numerico. Entrambe le frasi, “Fra le selvagge tigri” e “Ad augusta per angusta”, si collegavano alla passione del boss di Castelvetrano per la storia romana. Il primo tatuaggio sembra ispirarsi alla locuzione latina hic sunt leones, comparsa su carte geografiche dell’antica Roma e di età successiva in corrispondenza delle zone inesplorate dell’Africa e dell’Asia. Il secondo ad altra locuzione latina Per aspera ad astra, rintracciabile sia nel Libro Nono dell’Eneide di Virgilio sia nell’Hercules Furens di Seneca. 

I pizzini di Provenzano

A fare eccezione rispetto alla vocazione orale dei mafiosi sono i pizzini di Bernardo Provenzano che riprendevano l’idea delle farfalle di fine ottocento e delle palummedde, citate dal collaboratore di giustizia Calvaruso. Essi sono una fonte inesauribile di conoscenza dei meccanismi che regolano la comunicazione tra Provenzano, la sua famiglia e il popolo di Cosa nostra, con richieste di soluzioni cui segue puntuale la risposta dell’ex viddanu, cresciuto assieme a Totò Riina all’ombra di Michele Navarro, medico e boss di Corleone, ucciso negli anni Cinquanta. 

A tradire Provenzano è stato l’ultimo pizzino, inviato alla compagna la mattina stessa dell’arresto, avvenuto l’11 aprile 2006, dopo 43 anni di latitanza, in una masseria poco fuori Corleone, a due passi da dove era nato. Aveva comandato anche così, battendo i tasti delle sue macchine per scrivere e affidandone i messaggi nelle mani di alcuni fidati postini. 

Carissimo Ingegnere, 

ho letto quello che mi hadato M. ma a scanso di equivoci ho riferito che ne parlero quando ci sara possibile vederci; Mi e stato detto dal nostro Sen; e dal nuovo Pres; che spigeranno la nuova soluzione per la sua sofferenza; appena ho notizie velifaro avere; So che la avv. ed il SEn; Ho letto che a lei non ha piacere e bisogna prendere tempo. Si tratta di nomine nel gas; Z; mi ha detto che vi trovate in ospedale, che la salute vi ritorni presto e che il buon Dio ci assista.

Tra i suoi interlocutori c’era anche Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss stragista deceduto nel 2023. «I suoi contatti sono gli unici che a me stanno bene, cioè di altri non riconosco a nessuno, chi è amico suo è e sarà amico mio, chi non è amico suo – sottolineava il boss trapanese – non solo non è amico mio ma sarà un nemico mio, su questo non c’è alcun dubbio». E poi l’ossequio e la riverenza per il vecchio boss, che viene sempre evidenziata: «Io la ringrazio di cuore che lei si sta interessando a questo mio problema e la ringrazio per adoperarsi per l’armonia e la pace per tutti noi». In un altro pizzino, Matteo Messina Denaro esprimeva poi tutto il suo rispetto per le gerarchie mafiose: 

Le regole le conosco e le rispetto, la prova che io conosco le regole e che le sto rispettando sta proprio nel fatto che io mi sto rivolgendo a lei per sistemare questa spiacevole vicenda, questo per me è rispettare le regole. Ci fu un tempo in cui io ad Ag ho pulito tanti angoli, lo feci perché mi fu ordinato da chi era più in alto di me, e lei sa di chi parlo e lo feci anche perché era giusto e doveroso aiutarli, parlo dell’83 in poi, mi fu detto di sistemargli ciò di cui avevano bisogno e io nell’arco di anni mi resi sempre disponibile per tutto ciò di cui avevano bisogno, capirà che vivendo ripetutamente certe esperienze si instaura oltre un rapporto di amicizia anche un sentimento di fratellanza, bene, io anche in quegli anni di fratellanza non mi permisi mai di dire una parola in più ad Ag, cioè sono rimasto sempre nei limiti di amico e fratello. Ora di tutti quelli con cui avevo rapporti di fratellanza ad Ag, non ce n’è più nemmeno uno in giro, sono tutti dentro, chi c’è ora io non li conosco e mi rendo conto che non sanno nulla del passato, si figuri se io vado a dire parole in più agli amici di Ag di ora. 

Chiudendo il pizzino, Messina Denaro esprimeva ancora tutto il suo affetto per il vecchio boss corleonese: 

So che lei non ha bisogno di alcuna raccomandazione perché è il nostro maestro ma è il mio cuore che parla e la prego di stare sempre molto attento, le voglio tanto bene

Dai pizzini al web

Dai pizzini sgrammaticati con cui Provenzano esprimeva il suo personalissimo stile di comando, si è passati ai nuovi media, ma soprattutto alla comunicazione filtrata dai server che garantiscono la sicurezza di messaggi a prova di intercettazione. 

I primi a usare i social network sono stati i camorristi. Poi è stata la volta di ‘ndranghetisti e mafiosi. Il figlio di un boss della ‘ndrangheta, prima di essere condannato a trent’anni di reclusione, ha usato Facebook per tuonare contro la giustizia. 

Ha usato la stessa piattaforma di condivisione anche la figlia maggiore del boss Totò Riina che, in occasione della morte del padre, ha postato un dito sulla bocca per invitare tutti al silenzio. 

Con Instagram e TikTok, l’aspetto visuale dei messaggi ha soppiantato quello grafico. La parola scritta si è ridotta a un essenziale corredo, fatto di pochi termini chiave (hashtag) o sintetiche e apodittiche sentenze (meme). Come ha spiegato An Xiao Mina, studiosa americana di digital media, la parola scritta ha subito una profonda trasformazione sulle piattaforme digitali diventando uno strumento per rendere funzioni e attitudini comunicative proprie della cultura orale.25

In un rapporto sulle mafie nell’era digitale, promosso e finanziato dalla Fondazione Magna Grecia, Marcello Ravveduto ha spiegato come rappresentazione, autorappresentazione, performance e condivisione di contenuti concorrano in maniera paritaria alla creazione dell’interreale mafioso in cui la continuità tra reale e virtuale trasforma il cyberspace in cyberplace

Le piattaforme social sono ormai diventate territori digitali in cui convergono i contatti on-line e le reti sociali off-line. 

I comportamenti del mafioso, dell’affiliato o del simpatizzante nel mondo reale influenzano l’identità e la rete dei contatti nel social network; allo stesso tempo i comportamenti del mafioso, dell’affiliato o del simpatizzante nel social network influenzano l’identità e la rete sociale nel mondo reale. 

La lingua utilizzata è spesso il dialetto locale corredato da tracce sonore di uguale idioma e da simboli grafici (emoji) apparentemente innocui che assumono, però, valenza gergale all’interno del contesto criminale. Nei messaggi condivisi sui social media i rampolli dei boss si mostrano mentre bevono champagne, indossano abiti di lusso o guidano auto di grossa cilindrata. Secondo Ravveduto, l’utilizzo dei social network ha paradossalmente reso “trasparente”, per chi è in grado di riconoscerlo, il contesto mafioso, frutto della combinazione tra immediatezza e ipermediazione.26 

Matteo Messina Denaro, in questo senso, ha rappresentato la transizione tra i due mondi: all’inizio dei Duemila inviava pizzini in cui si firmava ‘Svetonio’, nel 2020 è passato ai social network aprendo due profili, su Facebook e Instagram, con lo pseudonimo di Francesco Averna. Li usava con un duplice scopo: osservare fatti e persone nel territorio in cui si nascondeva e comunicare con persone fidate attraverso piattaforme di messaggistica istantanea. 

Se i pizzini appartenevano a un sistema di comunicazione di carattere gergale, la comunicazione della Google Generation criminale, fatta di emoji, hashtag e meme, si è adeguata alle regole dei social media. Nel silenzio assordante di una mafia sempre più ibrida, in bilico tra realtà analogica e virtualità digitale.27

  1. G. La Piana, Strategie di comunicazione mafiosa, SBC Edizioni, Perugia, 2010, p. 20.
  2. G. Falcone, Cose di Cosa nostra, (in collaborazione con Marcelle Padovani), Rizzoli, Milano, 1991, p. 41
  3. A. Dino, A colloquio con Gaspare Spatuzza: un racconto di vita, una storia di stragi. E-book. Il Mulino, 2016
  4. S. Di Piazza, Mafia, linguaggio, identità, Centro di studi e iniziative culturali Pio La Torre, Palermo, 2010, p. 19
  5. G. Maria Calvaruso, ‘U Baccàgghiu. Dizionario Comparativo etimologico dei Gerghi Parlati dai Bassifondi, Clio, Palermo, 1029 citato in Jhon Trumper, Antonio Nicaso, Marta Maddalon e Nicola Gratteri, Male Lingue, Pellerini Editore, Cosenza, 2014, p. 9.
  6. ASCZ, Corte di Appello delle Calabrie, 1897, Vol. 368, 20 novembre. Cfr. A. Nicaso, Alle origini della ‘ndrangheta: la picciotteria, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 1990, p. 13.
  7. ASCZ, Corte di Assise di Gerace, Busta 24. Cfr. N. Gratteri, A. Nicaso, Fiumi d’oro, Mondadori, Milano, 2017, p. 5. Si tratta di un rapporto molto importante, in cui per la prima volta si fa riferimento ad una associazione a delinquere denominata degli ‘ndrangheti.
  8. Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Gergo della Malavita, Roma, 1969. «La pubblicazione», si legge nella premessa, «raccoglie, classificandole ed ed interpretandoli, termini ed espressioni più comunemente in uso fra delinquenti, allo scopo di offrire un sussidio valido, sotto l’esclusivo profilo didattico, a facilitare anche per questa via un più rapido ambientamento delle giovani guardie nel delicato ed impegnativo settore della polizia investigativa».
  9. A. Cutrera, La mafia e i mafiosi, Alberto Reber, Palermo, 1900. Ripubblicato da Franco Pangallo Editore, Locri, 2011, p. 86
  10. «[…] noialtri siamo mafiosi, gli altri sono uomini qualsiasi. Siamo uomini d’onore. E non tanto perché abbiamo prestato giuramento, ma perché siamo l’elite della criminalità. Siamo i peggiori di tutti!». Cfr. P. Arlacchi, Gli uomini del disonore, Mondadori, Milano, 1992, p. 5.
  11. A. Nicaso, M. Barillà, V. Amaddeo, Quando la ‘ndrangheta scoprì l’America, Mondadori, Milano, 20xx, pp. 236-237
  12. A. Pettinari, Calvaruso: “Bagarella mi diede un quaderno. C’erano nomi da terza guerra mondiale”, Antimafia Duemila, 7 ottobre 2014. Cfr. https://www.antimafiaduemila.com/dossier/processo-borsellino-quater/51677-calvaruso-qbagarella-mi-diede-un-quaderno-cerano-nomi-da-terza-guerra-mondialeq.html Consultato il 6 giugno 2024
  13. S. Romano, L’ordinamento giuridico, Enrico Spoerri Editore, Pisa, 1918
  14. ASCZ, Sentenze penali, Corte d’Appello delle Calabria, anno 1897, Vol. 368, 20 novembre. Cfr. A. Nicaso Nicaso, op. cit, 1990, pp. 13 e 69-70
  15. A. Cutrera, La mafia e i mafiosi, op. cit. p. 64
  16. A. Nicaso, Matteo Dalena, Le lettere di scrocco: come nacquero le estorsioni. Storica, 9 settembre 2021
  17. Marc Monnier, La Camorra, G. Barbera Editore, Firenze, 1862
  18. M. de Cervantes, Novelle Esemplari, Biblioteca universale Rizzoli, Milano, 1956, 1994
  19. C. Alvaro, La fibbia, Corriere della Sera, 17 settembre 1955
  20. ASCZ, Sentenze penali, Corte d’Appello delle Calabrie, anno 1890, vol. 324, 14 ottobre. Cfr. A. Nicaso, op. cit., 1990, p. 10
  21. A. Dumas, La Camorra e altre storie di briganti (A cura di C. Schopp), Donzelli Editore, Roma, 2012, p. 11
  22. A. Manzoni, I promessi sposi, Capitolo II, pag. 35
  23. F. Caravetta, Guagliuni i malavita. Cosenza 1870-1931, Pellegrini Editore, Cosenza, 2012
  24. A. De Blasio, Il tatuaggio, Prem. Stab. Tip. Cav. G.M. Priore, Napoli, 1906
  25. A. X. Mina, Digital Culture is Like Oral Culture Written Down, The Civic Beat, 11 gennaio 2015
  26. Le mafie nell’era digitale, Rappresentazione e immaginario della criminalità organizzata, da Wikipedia ai social media, a cura di Marcello Ravveduto, Fond. Magna Grecia, FrancoAngeli, Milano, 2023, pp. 15-16
  27. N. Gratteri, A. Nicaso, Il Grifone, Mondadori, Milano, 2023

Questo contributo è tratto dal volume tematico

Le mafie e la comunicazione

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