C’era un tempo in cui la mafia urlava il suo potere con il fragore delle bombe e il crepitio delle mitragliatrici. Oggi, quel rumore assordante si è trasformato in un sussurro, un’ombra che si insinua nelle pieghe della società italiana. È la “strategia della sommersione”, l’evoluzione più insidiosa e pericolosa della comunicazione mafiosa.
Dimentichiamoci i vecchi cliché dei mafiosi con la coppola e la lupara. Il nuovo volto della mafia è digitale, sofisticato, seducente. Le minacce non sono scomparse, ma si sono fatte più sottili, come un veleno che si diffonde lentamente nel corpo sociale. Il “muro di omertà” non è più costruito con mattoni di paura, ma con silenzi complici e sguardi d’intesa.
Il linguaggio mafioso si è evoluto in un codice criptico, un sistema di metafore e simboli che sfugge alle orecchie dei profani ma risuona chiaro per gli iniziati. Un gesto, uno sguardo, un post su Facebook: tutto può diventare un messaggio di potere, un ordine, una minaccia. La lingua del clan è diventata un vincolo forte quanto il sangue, un collante che tiene unita l’organizzazione nell’era digitale.
E parlando di era digitale, le mafie hanno fatto il grande salto. I social media sono diventati il loro nuovo territorio di conquista. Facebook, Twitter, Instagram: piattaforme che per molti sono semplici passatempi, per la mafia sono strumenti di controllo, propaganda e reclutamento. Un like può segnalare un’affiliazione, un commento può nascondere un ordine, un video su YouTube può lanciare un messaggio intimidatorio a migliaia di persone con un solo clic.
Ma la vera maestria della nuova comunicazione mafiosa sta nella sua capacità di seduzione. La mafia non si presenta più come un mostro da temere, ma come un’amica che ti tende la mano quando sei in difficoltà. Un prestito qui, una raccomandazione là, e improvvisamente ti ritrovi invischiato in una rete di favori e obblighi da cui è impossibile liberarsi. È una trappola dorata, un abbraccio mortale che ti stringe lentamente fino a soffocarti.
I media tradizionali non sono immuni da questa influenza. La manipolazione dell’informazione, la diffusione di fake news, la corruzione di giornalisti: sono tutte armi nell’arsenale comunicativo della mafia. L’obiettivo? Controllare la narrazione, delegittimare le inchieste, mantenere un’immagine di potere intoccabile.
E poi c’è la “pedagogia integrale” della mafia, un sistema educativo perverso che plasma “tutto l’uomo”. Dalla culla alla tomba, la mafia cerca di inculcare una visione del mondo che giustifichi e perpetui il suo dominio. È un lavaggio del cervello generazionale, una tradizione di potere e prevaricazione tramandata come un’eredità avvelenata.
I giovani sono il bersaglio preferito di questa nuova strategia comunicativa. Sui social media, la mafia si presenta come una scorciatoia per il successo, un mondo di lusso e rispetto facile da raggiungere. Le storie di boss carismatici e potenti diventano favole moderne, miti da emulare per chi cerca una via d’uscita rapida dalla mediocrità.
In questo nuovo panorama, l’omertà rimane un pilastro fondamentale. Ma non è più solo paura: è una cultura del silenzio radicata, una convinzione profonda che parlare non serva a nulla. La violenza, quando c’è, è selettiva e simbolica, un monito per chi osa alzare la voce.
La nuova comunicazione mafiosa è un equilibrio perfetto tra intimidazione e seduzione, tra minaccia e promessa. È un sistema che si autoalimenta, che si rafforza con ogni messaggio inviato, con ogni silenzio mantenuto. È un potere invisibile ma onnipresente, che si insinua nelle nostre vite quotidiane senza che ce ne accorgiamo.
Cosa serve quindi? La parola. La parola funziona, eccome. E le parole nuove contro le mafie non sono solo quelle che svelano e raccontano. Servono parole che esercitino una fascinazione opposta e contraria, ingaggiando una sfida di narrazione. E forse è anche per questo che le mafie temono i professionisti della parola. Smutandare i prepotenti è un colpo alla sua credibilità, una frusta sul loro ridicolo onore. Come ci ha insegnato Peppino Impastato.
Questo contributo è tratto dal volume tematico
Le mafie e la comunicazione