Intervista di Alessio Pasquini
La mafia è un po’ il battesimo di ogni tua fase: primo lavoro cinematografico come assistente alla regia di Marco Tullio Giordana ne I cento passi; prima puntata de Il testimone dedicata ad Addio pizzo; primo film da regista, La mafia uccide solo d’estate; prima puntata di Caro Marziano sulla strage di Pizzolungo, tra molte altre dedicate al tema, tra cui ricordiamo le due bellissime sull’Aula Bunker e il maxiprocesso. Chiaramente non è un caso: è una scelta artistica o una scelta politica?
È stata una scelta al contempo artistica e politica ma più che altro è un’ossessione. Per me la mafia è l’ingiustizia per eccellenza e la lotta alla mafia è non soltanto una lotta a un’organizzazione criminale ma è una lezione di vita. Significa opporsi a quello che per tutti è la realtà, “è sempre stato così e così sempre sarà”. Lasciamo da parte la retorica: la storia ci insegna che c’è stato un gruppo di uomini che non si è rassegnato ma si è opposto, e la nostra vita è migliorata grazie a queste persone. Questa è storia e quindi la lezione morale che mi da chi ha fatto la lotta alla mafia è: non rassegnarsi. Non è detto che ci si riesce e si ottiene qualcosa, ma meglio vivere lottando che rassegandosi. E poi nel caso della mafia la nostra vita è migliorata: dal punto di vista militare la mafia di Totò Riina è stata sconfitta. Però la mafia non è solo una questione legale, non riguarda soltanto i giudici, è una questione morale.
Effettivamente mi fai notare che ogni volta che incomincio parto con la mafia perché è l’ingiustizia per eccellenza. Lì dentro c’è il bullismo, c’è il femminicidio, c’è tutto, è la cattiveria delle cattiverie. Senza offendere nessuno per il paragone, quella della mafia è la tragedia del mio popolo: con numeri diversi, ma la reazione che abbiamo
avuto noi con la mafia è la stessa che hanno avuto i tedeschi col nazismo e gli italiani con il fascismo: “Io sono ebreo? No! Allora non mi riguarda”. Quando presentai La mafia uccide solo d’estate alla stampa estera dissi che noi non negavamo l’esistenza della mafia ma ne negavamo la pericolosità. Loro si sono guardati, hanno guardato me e hanno detto “è esattamente quello che abbiamo fatto noi col nazismo”! Quindi sì, è una mia fissazione, è anche un atto politico, ovviamente. È una fissazione che purtroppo mi ero promesso di placare, ma è più forte di me!
Esserti così legato a questo tema cosa ti ha dato e che cosa ti ha tolto artisticamente?
La mia paura, artisticamente è diventare il regista della mafia o dell’antimafia, io non voglio essere monotematico. Faccio sempre la battuta che se tiro dei ‘pipponi’ antimafia la gente comincia a tifare per Totò Riina. Artisticamente non so cosa ci ho guadagnato, forse ho avuto la possibilità di raccontare delle storie e metterci il cuore.
Hai scelto una strada che era poco battuta rispetto alla rappresentazione cinematografica ‘standard’ sulla mafia, ovvero quella del sarcasmo, dell’ironia e della comicità per ritrarre e ridicolizzare il fenomeno mafioso?
L’idea iniziale era: raccontiamo la mafia a chi non sa niente di mafia, raccontiamo ai danesi cos’è la mafia. Il racconto che abbiamo fatto della mafia non è quello di un giornalista, di un testimone, ma di uno che aveva 8 anni quando c’era la guerra di mafia. Prendere in giro la mafia è nella mia indole. L’approccio è stato quello di fare una commedia: un Forrest Gump siciliano. Forrest Gump ha incontrato John Lennon e il presidente degli Stati Uniti senza saperlo e il mio ragazzino incontrava i vari personaggi della lotta alla mafia, senza volerlo: Dalla Chiesa, Boris Giuliano, Rocco Chinnici e ogni volta che si stava per dichiarare al suo grande amore c’era un attentato di mafia che bloccava tutto.
La mia indole è smitizzare il mito. Prendere in giro la mafia credo che sia proprio una sorta di educazione. Nel senso che per noi palermitani non mafiosi la mafia era la mafia, una figura mitologica. Quando sono andato a vivere nella Palermo nuova, la vicina del palazzo nuovo disse a mia madre: «qui il costruttore è uno che…» poi abbassando la voce, «si fa rispettare». Quindi io sono cresciuto con il mito della mafia che si fa rispettare e va rispettata. Invece se tu parti con un film e soprattutto con una serie televisiva su Rai Uno, rete per antonomasia della famiglia italiana, e mandi in onda una serie dove si prende in giro Totò Riina, culturalmente il mito prende un’altra strada. Mi piace pensare che la generazione che è cresciuta con il film e con la serie La mafia uccide solo d’estate, sa che si può prendere in giro la mafia, e quindi si smitizza il mito. Ovviamente una volta questo lo faceva Peppino Impastato e lo faceva in un tempo in cui la mafia uccideva mentre io non ho mai avuto il rischio di essere ammazzato, non ho ricevuto minacce però sono abbastanza certo che questa chiave di lettura, dal punto di vista educativo e culturale, sposta.
Non hai mai ricevuto nessun tipo di minaccia o di reazione da parte di mafiosi?
No, quando scrissi il film un po’ mi feci delle domande, quando ho fatto la serie ero un po’ preoccupato. Forse qualche messaggio me lo hanno mandato ma non me ne sono accorto: una volta tentarono di rubare la mia Panda Young ed ho detto: ci siamo! Poi ho chiesto ai poliziotti intervenuti, dicevano che l’avevano rubata per i pezzi di ricambio. Questa è una grande cosa, sia per me che non ho avuto un problema, ma anche la dimostrazione che Palermo è cambiata rispetto a trent’anni fa, un tempo in cui qualcosa mi sarebbe arrivato. Temo che anche adesso se avessi parlato di ‘ndrangheta mi avrebbero ucciso, sicuramente mi sarebbe arrivato qualcosa, oppure avrebbero tentato di farmi fuori.
Hai raccontato molte vittime di mafia a chi non ne aveva mai sentito parlare, avvicinandoli anche attraverso caratteristiche piccole che son rimaste nell’immaginario collettivo e rendendoli profondamente umani. Boris Giuliano resterà un amante delle iris fritte!
Io non so se Boris Giuliano avesse una passione per le iris, io sicuro ce l’ho. In più, non è un documentario, era la mia visione di Boris Giuliano, l’immagine che mi ero fatto così come per Rocco Chinnici. Nello scrivere sono stato molto spavaldo, non ho parlato con le famiglie. Poi quando è uscito il film avevo paura dicessero: “No, mio padre in realtà non mangiava l’iris” o altre polemiche. Ma è andata benissimo, perché non importa se Boris Giuliano mangiasse iris o meno. L’importante era raccontarlo nella vita quotidiana, perché volevo spezzare questo meccanismo psicologico che si ha nel mettere sull’altare chi è stato ucciso dalla mafia. Invece la grandezza di queste persone è la loro umanità, perché erano persone normalissime. Tant’è che Boris Giuliano, che era veramente un superpoliziotto che aveva capito tutto, venne ucciso mentre stava pagando il caffè. Niente di epico, una morte mentre compiva un gesto che faceva tutti i giorni. Anche Chinnici io non lo vedo mentre indaga o che sta lavorando al pool antimafia: lo vedo mentre va al lavoro. Li vedo nella loro umanità che li rende ai miei occhi più grandiosi: hanno fatto quello che hanno fatto nonostante fossero esattamente come noi. Quindi è un invito a fare come loro, poi ognuno nel suo campo. Io non sarò in grado di indagare come Chinnici, ma nel mio piccolo faccio quello che posso fare.
Pensa che questa chiave, quella dell’ironia e del sarcasmo per raccontare i fenomeni mafiosi, sia ancora poco utilizzata?
In passato ci sono stati un film ironici sulla mafia. Una cosa però di cui vado molto fiero è che io faccio nomi e cognomi sia dei cattivi che dei buoni. Dei buoni è facile, dei cattivi, soprattutto se politici, è più difficile. Diciamo che è un gioco un po’ più serio. Il meccanismo dell’umanizzazione cioè quello di rendere umani anche i cattivi secondo me funziona. Perché ti fa più impressione se io ti faccio vedere Totò Riina che ha problemi ad accendere il condizionatore, non capisce mai se deve premere il pulsante col simbolo della neve o il sole. Una cosa che facciamo tutti. Ti fa capire che Totò Riina era anche lui potenzialmente il tuo vicino di casa. Anche questo mettere al nostro livello Totò Riina è utile per capire il fenomeno mafioso.
La partenza è: rendiamo umani anche i cattivi, perché ci dobbiamo rendere conto che noi abbiamo a che fare con gente che potenzialmente è il nostro vicino di casa e fa più paura. Perché se il tuo nemico lo vedi come una cosa estranea da te, ti tranquillizza, invece Totò Riina è molto più simile a noi di quanto non pensiamo.
In questo volume noi ci occupiamo di mafia e comunicazione. In una puntata di Caro Marziano vengono approfondite le dinamiche dell’asta del pesce di Terrasini. Ne viene fuori la descrizione di un rito carico di valore simbolico e comunicativo, fatto di suoni, gestualità, silenzi e parole in dialetto. Un linguaggio affascinante ma comprensibile solo agli addetti ai lavori. Pensa che, con le dovute differenze, le stesse dinamiche rituali, possano far parte del linguaggio mafioso?
Secondo me è molto siciliana, cioè l’asta a Napoli del pesce sarà diversa, sarà più teatrale. In quell’asta sicula io che aspiro a comprare quel pesce, non devo far capire agli altri che aspiro a comprare quel pesce. Quindi è tutto un gesto col dito, strizzatina d’occhio, un accenno. Questo linguaggio è molto siciliano. Di conseguenza, purtroppo, essendo la mafia nata in Sicilia, ciò che è siciliano, ahimé, diventa mafioso nell’immaginario delle persone. Se ci pensi, la mafia prima di Totò Riina era tutta simbolica. A me è capitato in questo senso di usare lo stesso meccanismo della mafia: una volta un ragazzo di Caccamo aveva denunciato il suo estorsore e mi aveva chiamato disperato perché si sentiva solo. Allora io ho fatto esattamente una cosa da siculo, una cosa che avrebbero fatto i mafiosi: mi sono vestito da Iena, cosa che non ero da tempo, ma speravo che la mafia di Caccamo non lo sapesse, ed ho detto al mio amico Giorgio: «Fammi vedere Caccamo». Mi ha fatto passeggiare per le strade di Caccamo mentre ero vestito da Iena. Come si dice a Palermo “mezza parola”, è tutto così. È tutto una “mezza parola” tu hai capito senza che io ti dica niente.
Il suo ultimo film si intitola E noi come stronzi rimanemmo a guardare e parla di lavoro povero e rider. Secondo lei adesso, in questo momento, che cosa stiamo solo guardando come stronzi?
Ma La mafia uccide solo d’estate poteva benissimo essere intitolata E noi come stronzi rimanemmo a guardare. Io credo che proprio appartenga alla cultura siciliana, ma anche alla cultura italiana: noi rimaniamo sempre come stronzi a guardare, fino a quando la cosa non ci tocca. Purtroppo è così. Allora ritorna la lezione di chi ha combattuto la mafia, la nostra vita è migliorata perché c’è stato qualcuno che non è rimasto come uno stronzo a guardare! Per questo mi fa schifo questo meccanismo di affacciarsi alla finestra e vedere se vince il toro o il torero, citando Falcone. Questo mi fa schifo perché vengo da una città che ha sempre fatto così e stava lì a guardare. Non mi riguarda! Invece ci riguarda! Boris Giuliano, Giovanni Falcone, tutti quanti non rimasero come stronzi a guardare, ma fecero una vita da stronzi, una vita orrenda, tutti ad andargli addosso sempre. Però è grazie a loro se la nostra vita è migliorata. Questa è storia, non è retorica, non è ottimismo solo perché vogliamo essere ottimisti, è un fatto storico. Ecco, noi non dobbiamo rimanere come stronzi a guardare.
Questo contributo è tratto dal volume tematico
Le mafie e la comunicazione