La riforma costituzionale cosiddetta della separazione delle carriere è costosa, ipocrita, inutile e dannosa. Mina la democrazia.

Condividi

Facebook
X
LinkedIn

L’ex presidente del Senato: «La “Repubblica dei pm” non esiste. Si è voluto imporre una visione punitiva con una prova di forza»

Per Pietro Grasso la riforma costituzionale cosiddetta della separazione delle carriere è «costosa, ipocrita, inutile e dannosa». Magistrato, presidente del Senato, oggi presiede la Fondazione Scintille di Futuro, nata con l’obiettivo «di custodire la memoria di chi ha lottato per la giustizia e di trasformarla in impegno civile per costruire un futuro migliore. È la naturale prosecuzione del mio percorso di vita». In questa nuova vita gli succedono cose impreviste, racconta. Come diventare protagonista del graphic novel Da che parte stai? (edito da Tunuè), che «racconta la storia recente del Paese incrociata con quella della mia famiglia, e di trovarmi al Lucca Comics a passeggiare tra cosplayer e giovani appassionati di fumetti». Torniamo ora alla riforma: è costosa, dice, «perché sottrae risorse umane e materiali a una giustizia già povera, per creare un doppione del Csm e una nuova Alta Corte disciplinare. Ipocrita, perché si vuole impedire un passaggio di funzioni — tra giudice e pm — che oggi avviene in misura dello 0,2%, con regole già rigidissime».

E perché inutile?

Perché la “Repubblica dei Pm” non esiste: nel nostro sistema accusatorio il pm è sotto il controllo del giudice, che decide su sequestri, arresti, intercettazioni. Ed è dannosa: corre il rischio di trasformare il pm in un organo di parte, orientato solo alla condanna, snaturandone la funzione di garanzia nella ricerca della verità anche in favore dell’indagato. In tutti i Paesi in cui le carriere sono separate, il governo controlla l’esercizio dell’azione penale. Ecco perché temo che questa riforma finisca per indebolire l’indipendenza della magistratura e riportarci indietro nel tempo, a una giustizia prona al potere politico.

La campagna referendaria riprorrà lo scontro politica-magistrati?
Purtroppo sì, ma la contrapposizione nasce dall’arroganza di aver imposto una riforma senza accogliere, in quattro passaggi parlamentari, né un emendamento, né una proposta tra quelle venute dall’Anm, da esperti e giuristi. Possibile che fosse nata perfetta? O si è voluto imporre una visione punitiva con una prova di forza? La logica dello scalpo non ha mai portato fortuna ai referendum costituzionali. Sarebbe stato utile un confronto sui principi ma si è preferito dipingere la magistratura come un blocco monolitico, politicizzato e ostile, e non un presidio di democrazia. La politica dovrebbe mirare a rendere i processi più rapidi ed efficienti, non a delegittimare chi li celebra.

Non ci sono chance di tregua?
Non credo alle guerre istituzionali. Serve il rispetto reciproco dei ruoli. È legittimo che la politica voglia migliorare l’efficienza della giustizia; è doveroso che la magistratura difenda la propria indipendenza. Ma quando si rompe l’equilibrio dei poteri si mina la democrazia. Il punto è garantire ai cittadini una giustizia rapida e efficiente e investire le risorse necessarie, dai tribunali alla penosa situazione delle carceri.

Cosa dovrà fare il fronte del “no”?
Spiegare che non è una battaglia corporativa, ma costituzionale. Non si tratta di difendere privilegi, ma un principio – l’indipendenza della magistratura – e far capire che separare le carriere significa cambiare l’assetto costituzionale. Una giustizia indipendente non è un interesse dei magistrati, ma di tutti.

L’Anm ha costituito un comitato per il “no”. È giusto?
È un passaggio delicato, richiederà equilibrio. Quel comitato immagino non nasca per difendere una corporazione ma un’idea di giustizia, ne fanno parte magistrati di tutte le provenienze. Lo dovrà fare con la massima sobrietà e argomenti solidi, evitando contrapposizioni politiche.

Alcuni magistrati, anche ex toghe entrate in politica, parteciperanno alla campagna referendaria. Un bene o un male?

Anche gli ex magistrati sono cittadini, e chi ha vissuto la giustizia dall’interno può offrire una testimonianza preziosa. Io stesso racconto spesso che passare da una funzione all’altra ha ampliato la mia professionalità, soprattutto sulla cultura della valutazione della prova.

C’è il rischio di toni troppo alti?
Lo vediamo già. Ma la giustizia non può essere materia da propaganda: è il fondamento stesso del patto sociale. Saranno mesi lunghi.

Il corto circuito fra magistrati e politica, dall’era Berlusconi, ha creato una tensione permanente?
Quel conflitto, che parte da Tangentopoli, ha lasciato ferite profonde. La tensione nasce quando la politica non tollera il controllo di legalità, o quando la magistratura viene percepita come un contropotere. La soluzione non è smantellare le garanzie, è ricostruire la fiducia.

La magistratura non è popolare come una volta. Come finirà?
Ci sono state colpe individuali, errori, correntismi, che hanno contribuito a incrinarne l’immagine. Ma non si può confondere la parte con il tutto. I magistrati restano un patrimonio insostituibile di democrazia. Non sono una casta, ma un corpo dello Stato che garantisce a ricchi e poveri, potenti e cittadini comuni che la legge sia davvero uguale per tutti. I giudici non seguono sempre le richieste dei pm, e proprio in questi giorni leggiamo di magistrati che indagano altri magistrati, segno che è un corpo che sa verificare il proprio operato con rigore. Gli italiani sanno che la giustizia non appartiene ai magistrati né alla politica, ma alla Costituzione e ai cittadini. Difendere la sua indipendenza significa difendere la libertà di ciascuno.

©️Intervista Daniela Preziosi – Domani

Leggi anche

Dal magazine

Acquista o regala un abbonamento